Filiberto Crosa
Quando ci si imbatte in un artista dalla produzione così eteroclita come lo è quella di Filiberto Crosa, è difficile attribuire delle definizioni.
Crosa è un artista tout coeur: la formazione tecnica di stampo architettonico è perfettamente bilanciata da una sensibilità “camp” che consente l’evasione nell’ambito artistico dove tutto, o quasi, è concesso per levità della materia.
Secondo Susan Sontag, il camp è l’amore per l’innaturale, l’artificioso, l’esagerato.
Il termine “camp” si riferisce all’uso deliberato, consapevole e sofisticato del kitsch nell’arte ma non si tratta di una corrente artistica, piuttosto di una “sensibilità”.
Il fenomeno oggetto di studi, oltre che durante la rivalutazione delle culture popolari negli anni Sessanta, negli anni Ottanta, periodo dell’ampia diffusione del discorso Postmoderno applicato all’arte ed alla cultura, coinvolge molti artisti contemporanei.
Filiberto Crosa che ha guardato con gli occhi curiosi del giovinetto quegli anni di tripudio dell’eccesso, ne ha tratto degli spunti e li ha elaborati in una chiave tutta personale e raffinata.
Dire che la sua è un’arte da salotto, non significa sminuirne la sostanza, ma evidenziarne un aspetto,
nello specifico quello più propriamente edonistico e rasserenante, ironico e popolare.
Le sue composizioni eludono la realtà in modo leggero e trasognato, senza darci scossoni e turbamenti, come molta arte odierna è ormai avvezza fare, ma al contrario invitano lo spettatore a tacere e a lasciarsi trasportare dalle variopinte storie che ogni opera reca in sé.
La ricerca in atto non è incentrata sul riutilizzo di oggetti e simboli della vita di ogni giorno, sebbene essi siano ampliamente presenti. Tutto nasce dagli accostamenti della materia, aspetto su cui l’artista sperimenta non poco, e il colore, frutto di minuziose sperimentazioni cromatiche, per creare ora suggestioni di mondi e creature lontane, ora aneddoti raccontati con una grafia da fare invidia al più elegante amanuense, ora mappature geometriche aperte alle più diverse interpretazioni.
Qualunque cosa crei Filiberto Crosa, lo fa con il suo stile: colorato, eccessivo.
Passa con agilità, disinvoltura ed ironia, ingrediente essenziale alla base della sua poetica, dalle installazioni pittoriche arricchite di elementi scultorei classici a composizioni che riecheggiano lo stile barocco per poi spingersi fino ad iconografie non sense alla Escher.
Una chiara matrice comune lega una produzione tanto diversificata, e non ci stupiremo nel riconoscere nell’artista dalle composizioni candidamente piumate lo stesso dei quadri/manga giapponesi.
C’è poi la parola:
Una parola che è poesia, racconto, segno elegante ed affusolato che si perde tra le pennellate ricche e opulente. Le storie, in questo caso, sono realmente scritte, ma è difficile non lasciarsi inebriare dalle parole di canovacci incompleti che si perdono tra le brame di un colore che diventa magma, sostanza immersiva e protagonista indiscusso dell’intera composizione.